Il mantenimento dei figli minorenni
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Il diritto dei figli ad essere mantenuti dai genitori, così come il dovere di questi ultimi di provvedere al sostentamento dei figli, trova origine all’art. 30 Cost. che afferma il principio generale secondo cui “è dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori dal matrimonio”.
Il diritto al mantenimento non viene meno in caso di separazione, scioglimento o cessazione degli effetti civili, annullamento, nullità del matrimonio ovvero all'esito di procedimenti relativi ai figli nati fuori del matrimonio, e trova la sua specifica previsione nel codice civile all’art. 337 ter, come riformulato dalla riforma del 2013 in ambito di filiazione.
In seguito alla disgregazione del nucleo familiare, i figli continuano ad avere diritto ad un mantenimento tale da garantire loro un tenore di vita corrispondente alle risorse economiche della famiglia ed analogo, per quanto possibile, a quello goduto in precedenza.
In base all’art. 337 ter c.c., “salvo accordi diversi liberamente sottoscritti dalle parti, ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito; il giudice stabilisce, ove necessario, la corresponsione di un assegno periodico al fine di realizzare il principio di proporzionalità, da determinare considerando:
1) le attuali esigenze del figlio.
2) il tenore di vita goduto dal figlio in costanza di convivenza con entrambi i genitori.
3) i tempi di permanenza presso ciascun genitore.
4) le risorse economiche di entrambi i genitori.
5) la valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore.”
L’espressa previsione che il giudice stabilisca, ove necessario, la corresponsione di un assegno periodico al fine di realizzare il principio di proporzionalità, ha dato luogo sin dal 2006 (anno di entrata in vigore della norma) ad un dibattito molto intenso che vede contrapposti due orientamenti. Secondo il primo orientamento la formulazione della norma prevede il mantenimento diretto dei figli, dunque non per il tramite di un assegno periodico, da parte di ciascun genitore in modo proporzionale al proprio reddito e solo in caso di necessità il giudice deve intervenire indicando la misura di un assegno periodico.
Per il secondo orientamento, avvalorato dalla giurisprudenza, al Giudice spetta senz’altro il compito di indicare da subito un assegno, presumendo che questa modalità sia ragionevolmente l’unica che possa essere seguita nel caso di genitori che separano le loro vite.
Indipendentemente dall’orientamento prescelto, non si potrà prescindere da alcuni elementi destinati ad incidere significativamente sulla previsione di un contributo periodico, ovvero i tempi di frequentazione con i minori, l’assegnazione della casa familiare e il divario tra i redditi dei genitori.
La più recente giurisprudenza ha, infatti, affermato che l’assegnazione della casa familiare rappresenta un innegabile beneficio per il genitore assegnatario, mentre comporta una logica diminuzione della capacità economica per il genitore costretto a lasciare la propria casa e a sostenere le spese per l’affitto, con la conseguenza che l’eventuale spesa relativa ad un nuovo alloggio andrà a sommarsi ai criteri espressamente previsti dall’art. 337 ter c.c.
Infine, un ultimo accenno va fatto alla possibilità in capo al Giudice, come previsto dalla norma, di disporre l’accertamento della polizia tributaria sui redditi e i beni, anche se intestati a soggetti diversi, “ove le informazioni di carattere economico fornite dai genitori non risultino sufficientemente documentate”.
Con questa previsione il Legislatore ha voluto tutelare l’avente diritto al mantenimento dalle situazioni in cui appare evidente che i genitori lavorino senza regolare contratto o che i redditi dichiarati non corrispondano ai redditi effettivamente percepiti.